Recensione a cura di Eleonora Corgiolu
La conquête de l’Amérique. La question de l’autre è un libro di Tvetan Todorov pubblicato nel 1982 e tradotto nel 1984 in italiano con il titolo La conquista dell’America. Il problema dell’ altro. In questo saggio l’obiettivo di Todorov non è ripercorrere la storia della conquista dell’America ma raccontare, attraverso di essa, l’incontro che l’io fa con l’altro: «Voglio parlare della scoperta che l’io fa dell’altro. L’argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto quanto non coincide con l’io: l’io è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio punto di vista – per il quale tutti sono laggiù mentre io sono qui – separa e distingue nettamente da me». (p. 5). Poiché « la scoperta dell’America, o meglio degli americani, è l’incontro più straordinario della nostra storia» (pp. 6-7) Todorov sceglie di trattare attraverso questo tema la categoria dell’alterità: nel 1492, infatti, Cristoforo Colombo si imbarcò con l’obiettivo di raggiungere le Indie navigando verso occidente. Scoprì invece un continente di cui non si sospettava l’esistenza. Todorov sceglie di narrare una «storia esemplare» (p. 6) densa di citazioni e commenti, focalizzando la sua attenzione sul Messico del XVI secolo: «Io non penso che il racconto della conquista dell’America sia esemplare nel senso che rappresenti un’immagine fedele del nostro rapporto con l’altro […] Noi siamo simili ai conquistadores e siamo da loro diversi; il loro esempio è istruttivo, ma non saremo mai sicuri che, non comportandoci come loro, non li imiteremo adattandoci alle nuove circostanze. La loro storia, peraltro,può essere esemplare per noi, in quanto ci permette di riflettere su noi stessi, di scoprire le somiglianze e le differenze: ancora una volta, la conoscenza di noi stessi passa attraverso quella dell’altro» (p. 308).
Le numerosissime citazioni usate dall’autore conferiscono al libro un carattere profondamente dialogico. Todorov infatti dichiara di aver voluto cercare un dialogo con gli autori del XVI secolo: «Interpello, traspongo, interpreto quei testi; ma anche li lascio parlare (perciò tante citazioni) e li lascio difendersi» (pp. 303-304). Il saggio si presenta rigorosamente strutturato, diviso in quattro parti intitolate «scoprire», «conquistare», «amare», «conoscere». Ad ognuna di queste parti è associato un personaggio esemplare, rispettivamente Cristoforo Colombo, Hernán Cortés, Bartolomé de Las Casas e, infine, i religiosi Durán e Sahagún che furono tra coloro che si dedicarono a raccogliere e conservare informazioni circa le popolazioni sconfitte. Todorov ci presenta Cristoforo Colombo come « colui che ha scoperto l’America ma non gli americani» (p. 60). Il navigatore assimila gli indiani al paesaggio circostante e misconosce la loro cultura: «L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nella migliore delle ipotesi, quello del collezionista di curiosità e non si accompagna mai ad un tentativo di comprensione» (p. 43). Colombo non è interessato a capire la lingua dei nativi e, quindi, a comunicare con loro. «Si resta colpiti dal fatto che Colombo non trova – per caratterizzare gli indiani – aggettivi diversi dalla coppia buono/ cattivo, che in realtà non dice niente: non solo perché queste qualità dipendono da un determinato punto di vista, ma anche perché corrispondono a stati momentanei e non a caratteristiche permanenti; non sono il frutto del desiderio di conoscere, ma dell’apprezzamento pragmatico di una situazione» (p. 44). Colombo estende agli altri i propri valori ed il proprio modo di vedere le cose. Se riconosce all’altro il ruolo di soggetto, egli lo assimila a sé e ai propri valori, se invece ne riconosce la differenza, questa implica immediatamente inferiorità. Leggiamo: « L’atteggiamento di Colombo verso gli indiani si fonda sulla percezione che egli ne ha. Si potrebbero distinguere due componenti, che si ritroveranno nel secolo seguente e, praticamente, fino ai giorni nostri in ogni colonizzatore rispetto al colonizzato […]. O egli pensa agli indiani (senza peraltro usare questo termine) come a degli essere umani completi, con gli stessi diritti che spettano a lui; ma in tal caso non li vede come uguali, bensì come identici, e questo tipo di comportamento sbocca nell’assimilazionismo, nella proiezione dei propri valori sugli altri. Oppure parte dalla differenza; ma questa viene immediatamente tradotta in termini di superiorità (nel caso, com’è ovvio, sono gli indiani ad essere considerati inferiori)» (p. 51).
L’atteggiamento di assimilazione sbocca nel desiderio di cristianizzare i nativi, definiti portatori naturali di qualità cristiane; nel caso in cui essi facessero resistenza e non volessero consegnare le loro ricchezze Colombo sostiene la necessità di sottometterli con la forza, ponendoli su un piano di ineguaglianza e inferiorità: «Diffondere la religione presuppone che gli indiani siano considerati uguali (dinanzi a Dio). Ma se non vogliono dare le loro ricchezze? Bisognerà allora sottometterli militarmente e politicamente» (p. 54). Hernán Cortés si pone invece nelle condizioni di comprendere la lingua e la politica dell’altro e ciò gli permette di conquistare l’impero azteco: «Cortés si assicura il controllo dell’antico impero azteco in virtù della sua padronanza dei segni degli uomini» (p. 146). Cortés è stato, dunque, sensibile alla diversità ma nel suo caso il comprendere è stato finalizzato a distruggere l’altro :«Se il comprendere non si accompagna al pieno riconoscimento dell’altro come soggetto, allora questa comprensione rischia di essere effettuata ai fini dello sfruttamento, del prendere. Il sapere risulterà subordinato al potere» (p. 161). I conquistadores provocarono il genocidio degli indiani a causa del desiderio di arricchirsi presto senza curarsi del benessere dell’altro ma non solo: alla base del loro comportamento si trova l’idea «che i conquistatori si fanno degli indiani, idea secondo la quale questi ultimi sono degli esseri inferiori, delle creature a mezza strada tra gli uomini e gli animali: senza questa premessa essenziale la distruzione non avrebbe potuto aver luogo» (p. 177). Il grande difensore degli indios, Bartolomeo de Las Casas, difende gli indiani, riconoscendo loro pari dignità e uguali diritti in base al principio che tutti gli uomini sono figli di Dio. Las Casas non riconosce però le differenze e le peculiarità dei nativi americani. Nota Todorov: «Il postulato d’eguaglianza sbocca in un’affermazione d’identità » (p. 203). L’altro in quanto tale non è riconosciuto da Las Casas che ha verso gli indiani un atteggiamento di assimilazione. Todorov sostiene che Las Casas non era immune da un’ideologia colonialista: essi avevano il progetto di evangelizzare gli indiani ma rifiutavano ogni metodo violento perpetuato invece dai conquistadores : «Se qualcuno ha contribuito a migliorare la sorte degli indiani, è stato proprio Las Casas […] Ma nulla toglie alla grandezza del personaggio il riconoscere che l’ideologia di Las Casas e di altri difensori degli indiani è un’ideologia colonialista » (pp. 209 – 210). L’ideologia colonialista presuppone che i colonizzatori siano portatori si una civiltà superiore; il colonialismo, quindi, si oppone all’unica via che permette un reale incontro con l’altro: la comunicazione non violenta, che non impone ma propone: : «E’ possibile, in compenso, stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze: l’essenziale, direi, consiste nel sapere se esse sono imposte o proposte» (p. 218). Dunque, è solo attraverso la comunicazione, il dialogo, ci si apre all’altro riconoscendolo nella sua qualità di soggetto paragonabile all’altro soggetto che sono io. La quarte parte del libro, intitolata «conoscere», è dedicata alle figure dei religiosi Diego Durán e Bernardino de Sahagún che «preannunciavano, senza realizzarlo pienamente, il dialogo tra le culture caratteristico del nostro tempo» (p. 303). Il loro obiettivo dichiarato consisteva nel conoscere i riti e le pratiche dei nativi americani per poterli meglio evangelizzare. Nell’epilogo Todorov dichiara di scrivere il libro per ricordare quello che può accadere « se non si riesce a scoprire l’altro» (p. 299). Il compito della memoria non è perpetrare vendetta che riprodurrebbe «quanto di più condannabile gli europei hanno compiuto» (p. 298). L’obiettivo che nella società di oggi ci poniamo è « vivere la differenza nell’uguaglianza» (p. 302): entrare in rapporto con l’latro rifuggendo da una parte l’assimilazione e dall’altra la gerarchia di superiorità o inferiorità. Se il multicultarismo è infatti essenziale ad ogni cultura che voglia progredire, occorre fuggire una forma di relativismo che conduce all’indifferenza rispetto ad ogni valore. La figura dell’esule moderno, con cui Todorov si identifica, simboleggia un aspetto tipico della società. Scrive: « Oggi l’esule è colui che incarna meglio modificandone il senso originario, l’ideale che Ugo di San Vittore così formulava nel XII secolo: “l’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero” (io che sono un bulgaro che abita in Francia, prendo a prestito questa citazione da Edward Saïd, palestinese che vive negli Stati Uniti, il quale l’aveva trovata, a sua volta, in Erich Auerbach, (tedesco esule in Turchia)» (pp. 302, 303).
Vivere la differenza nell’eguaglianza rappresenta un ideale non facile da raggiungere e da mantenere poiché il rischio di derive verso i due estremi dell’alterità, la gerarchia o l’assimilazione, è sempre presente. Per questo motivo l’opera di Todorov merita di essere letta, rappresentando un ottimo spunto di riflessione sul delicato e affascinante tema dell’incontro con l’altro.