«È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Questo è quanto sosteneva Antonio Genovesi, filosofo ed economista italiano a cui, nel 1754, fu affidata la prima cattedra di economia per la quale impartirà “Lezioni di economia civile”.
Tra i maggiori esponenti dell’illuminismo italiano, Genovesi guarda con disapprovazione all’arretratezza in cui versava il Regno di Napoli; analogamente al suo contemporaneo Adam Smith, è critico nei riguardi del regime feudale e vede nel mercato la via per liberarsi dal giogo feudale, causa di stagnazione e miseria. A differenza di Adam Smith, però, che esclude dal mercato qualsiasi relazionalità non strumentale, Genovesi indica proprio il mercato come luogo di mutua assistenza e reciprocità: la peculiarità della sua riflessione consiste nel veicolare un’idea di economia legata ai concetti di pubblica felicità e incivilimento. Il cardine di tutta la sua riflessione è rappresentato dal principio di relazionalità come costitutivo della persona: «niuno stato umano è da reputarsi più infelice quanto è quello di essere soli, cioè slegati da ogni commercio de nostri simili. È un detto di Aristotele bello e vero, che è forza che l’uomo solitario e contento di sé solo sia o divinità o una bestia».
Per questo partiamo proprio dalla figura di Genovesi per introdurre il programma che si propone di attuare oggi l’economia civile: un programma che si pone come alternativa alla teoria economica classica nella misura in cui pone al centro la persona e considera il mercato, l’impresa e l’economico in sé luoghi di amicizia, gratuità e mutuo vantaggio.
L’economia civile si presenta come un tentativo di riforma da attuare contro un’economia che esclude, un’economia dello scarto. Infatti, come è solito affermare il noto economista Luigino Bruni, “l’economia o è civile o è incivile”, ed è incivile quando esclude, penalizza, sfrutta, distrugge la vita comune. Risulta dunque necessario, oggi più che mai, riflettere sul legame esistente tra due ambiti disciplinari solitamente considerati separati: l’economia e la filosofia e riconsiderare il legame esistente tra economia, relazioni personali e felicità intesa, in senso aristotelico, come eudaimonia. Solo grazie a questa rilettura è possibile porre le domande giuste al discorso economico, a cominciare dalla domanda sull’uomo.
Proprio l’economia civile rappresenta lo spazio di questa riflessione in quanto si basa su una categoria fondamentale che è quella delle relazioni sociali, da cui poi derivano tutte le parole e i concetti fondamentali che costellano questa dimensione e che sono tra loro interdipendenti: bene comune, felicità, reciprocità, gratuità. Le relazioni sociali, quindi, sono alla base dell’economia civile e rappresentano la cerniera tra economia e felicità. Come già evidenziava bene Aristotele, la grande peculiarità dell’essere umano è la relazionalità: “Senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni” (Etica Nicomachea, VIII, I).
Recenti studi dimostrano come il livello di felicità soggettivo non sia legato all’aumento del reddito o del benessere materiale: si è soliti parlare, a questo proposito, di “paradosso della felicità in economia”. Ad aprire il dibattito fu, nel 1974, l’economista americano Richard Easterlin che pubblicò un celebre articolo in cui sottolineava che, seppure il reddito medio per abitante avesse avuto nel suo paese una crescita straordinaria del 60% tra il 1945 e il 1970, la proporzione delle persone che si dichiaravano felici non era variata: questo studio, presto divenuto noto come paradosso della felicità, dimostra il debole legame tra reddito e felicità in tutti i Paesi che hanno già raggiunto una certa soglia di ricchezza, contraddicendo in tal modo una convinzione che era alla base dell’economia classica. Proprio il concetto di bene relazionale consente di risolvere il paradosso di Easterlin in economia: la persona con la sua identità (non l’individuo anonimo) e le relazioni interpersonali.
Porre al centro la persona: così si potrebbe sintetizzare il programma di ricerca dell’economia civile. Oggi il paradigma dell’economia civile è promosso da studiosi di grande spessore culturale; essendo impossibile, in questo contesto, condurre una disamina di tutti coloro che hanno contribuito e contribuiscono a lavorare al nucleo di ricerca dell’economia civile (cosa che ci riserviamo di fare gradualmente avvalendoci dello strumento rappresentato da questo blog), ci limitiamo a citare economisti del calibro di Stefano Zamagni e Luigino Bruni, fondatori della Scuola di Economia Civile (SEC), con sede ad Incisa Valdarno, la cui mission consiste nel diffondere questo paradigma economico-culturale centrato su reciprocità, bene comune, dignità della persona.
Un aspetto che deve inoltre essere sottolineato del programma di economia civile è rappresentato dalla «necessità di superare un’impostazione che vada oltre i singoli atti di responsabilità sociale e di mera filantropia, in favore di una che sia capace di interiorizzare una prospettiva che riconsideri integralmente il modo di essere e fare impresa»1.
Concludiamo citando brevemente due magnifici esempi di applicazione dei principi dell’economia civile.
«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinate, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?» Questo è l’ideale di Adriano Olivetti (1926-1960), il cui obiettivo infatti, era tradurre in progresso civile i risultati del processo produttivo: secondo questa concezione, infatti, l’impresa è irriducibile al puro profitto. La fabbrica si sviluppa per creare e diffondere, al proprio interno e nella realtà circostante, una migliore qualità della vita.
Ancora più recentemente, una traduzione del modello di economia civile è rappresentato dall’Economia di Comunione (EdiC), con le peculiarità che derivano dalla dimensione di fede e spiritualità in cui nasce. A dare inizio a questo modello di economia è Chiara Lubich (1920-2008), fondatrice del Movimento dei Focolari, in seguito ad un viaggio in Brasile nel 1991, in cui rimase scandalizzata dalla disumana povertà che incontrò. Con questo progetto Chiara Lubich si poneva l’obiettivo di umanizzare l’economia attraverso la creazione di imprese guidate da persone competenti per ricavarne degli utili da mettere in comune e da distribuire in favore dei poveri, per creare strutture deputate alla formazione di “uomini nuovi”, capaci di diffondere questo progetto, e, infine, per lo sviluppo dell’impresa. L’economia di comunione, che pone alla propria base il concetto di persona, rifiuta il paradigma dell’assistenzialismo e promuove invece la cultura del dono: il dono, infatti, non ricerca lo scambio di equivalenti ma persegue il rafforzamento delle relazioni sociali.
L’economia di comunione, quindi, si basa sul superamento della netta contrapposizione tra il momento della produzione e il momento della distribuzione della ricchezza e sulla trasformazione dello stile di vita aziendale nella sua interezza, sostenendo un concetto di lavoro come ambito costitutivo dell’uomo in cui la persona possa realizzarsi. Il lavoratore, in base a questo paradigma, deve sempre avere a cuore il bene del destinatario a cui arriverà il frutto del suo lavoro, anche se non lo conosce. Come afferma la stessa Lubich: «Le imprese di Economia di Comunione si impegnano, in tutti gli aspetti della loro attività, a porre al centro dell’attenzione le esigenze e le aspirazioni dell’uomo e le istanze del bene comune. Esse, pur operando nel mercato e restando a tutti gli effetti delle ditte o società commerciali, si propongono come propria ragion d’essere di fare dell’attività economica un luogo di comunione: comunione tra chi ha beni ed opportunità economiche e chi non ne ha; comunione tra tutti i soggetti coinvolti nell’attività stessa».
1 G. Argiolas, Il Valore dei valori, Città Nuova Editrice, Roma 2014, p. 17